Nuovo prestigioso riconoscimento per Luciana Castellina. La presidente onoraria dell’Arci sarà in Campidoglio il 1 dicembre per essere  premiata  come finalista, insieme alla coautrice Milena Agus, del Premio Fiuggi Storia, sezione romanzo storico, per il romanzo “Guardati dalla mia fame”.

Questa la recensione di Giacomo Verri sul sito “Satisfiction”.

“Ci furono un luogo e un tempo ove il dolore incalmabile e la diffidenza, la miseria dei vinti e l’agiatezza tetragona dei potenti spinsero le onde dei loro intimi umori a fracassarsi sul medesimo scoglio: era, all’indomani dell’armistizio, la Puglia stivata di reduci che “non appartenevano più a nessuno” e che non si sapeva se dire “soldati, profughi o rifugiati”; raccontavano la guerra inascoltati, come se quella non avesse mosso neppure i grani della polvere. E mentre a Brindisi si installava, con quelli venuti da Roma, una corte ridicola e indegna, nell’intera regione tribolava, immutabile, la giornata stenta di frotte d’esseri umani che sui pendii delle Murge, in dimore simili a canili, su materassi fatti di foglie, strisciando sui nervi scoperti della malora, seguitavano a vivere solo per sentire più enorme la fame del giorno dopo. È “la guerra di Puglia”, quella fra braccianti e agrari, acuita da una pace confusa; a raccontarla, affiancando a quella dei palazzi la voce della piazza, sono due scrittrici d’eccezione, Milena Agus e Luciana Castellina in Guardati dalla mia fame (Nottetempo, pp. 207, € 15).
Le sorelle Porro, al centro del libro, appartengono a una delle meglio antiche famiglie di Andria e il lettore varca la soglia del palazzo affacciato su piazza Catùma accompagnando un’amica delle donne che “delle sorelle Porro pensava spesso che non servissero a niente, ma andare da loro le piaceva. C’era una grande pace […]. Ma, appena fuori, pensava subito che non era a posto niente e pace non ce n’era affatto”. L’incipit tocca nel punto esatto il confine tra il dentro e il fuori, tra la triste ricchezza della sontuosa casa palazziata delle Porro del Quadrone e la sfasciata miseria dei braccianti in cerca d’un giorno di lavoro stremante e sottopagato.
A Milena Agus il compito di raccontare il dentro, l’inane pignoleria, l’agiatezza incapace di rendere floridi i pensieri e i modi di comportarsi delle ricche sorelle, fisse a sgranare rosari e a dettare “miseri elenchi della spesa”, vestite “con le calze nere pesanti anche d’estate”, a causa, o in conseguenza della loro estromissione dal mercato matrimoniale degli ‘amori adulti’, quelli senza passione.
Il fuori, invece, preme minaccioso nelle parole di Luciana Castellina che facendo della Storia un prolifico fonte di avvii romanzeschi conduce chi legge, prima che dietro la schiena di quelli “aggrumati in mezzo alla piazza” per il folle mercato umano dei braccianti, sulle vie intricate delle speranze deluse, dei bisogni brutali di quanti per la fame avrebbero mangiato le carni stesse dei ricchi e finirono invece per divorare uno Stato incapace d’armonizzare la plurivocità della democrazia. La Puglia di questa guerra civile, in cui “i residuati bellici erano più facili da trovare della cicoria”, sembra non aver imparato nulla dalla Storia, più somara che maestra, gli affamati della Capitanata e delle Murge seguitano a essere i miserabili, e i baroni che nei secoli accumularono privilegi spagnoli han di nuovo in mano le risorse statali che il Fascismo trainò laggiù. È una terra che si mangia lo Stato perché i poveri non sanno che farsene di leggi sempre avverse, quelle di prima e quelle di poi, comprese le spinte degli Alleati che per difendere la loro democrazia costringono gli italiani a far sopravvivere gli ex fascisti sotto mutate spoglie; e i ricchi ancora non vogliono saperne di quella gamma schifosa di poveri braccianti, della loro primaria necessità di sopravvivenza. Neppure le forze politiche di sinistra riescono a capire la miseria. E la miseria infine esplode, fracassa, uccide. Accanto a tanti altri morti, sono le sorelle Porro a perdere la loro “inutile vita” il giorno prima della festa della Donna, il 7 marzo 1946. Ci si trova di getto tra le pagine della Libertà di Verga: al posto dei garibaldini ci sono gli Inglesi ma ancora “la parola libertà perde di senso” o forse seguita a non possederlo in un mondo in cui la dimensione verticale del palazzo neppure scorge l’orizzonte della piazza, in cui la “vita racchia color grigio topo” delle donne Porro non ha orecchie per sentire le urla disperate della fame che smilza i corpi e crepa le mani.
E ciò che lascia più in veleno la bocca è l’idea, prospettata dalla ‘rivoluzionaria’ amica delle sorelle Porro, che tra il dentro e il fuori la differenza sta solo nella fame, saziata o disperata, mentre le esistenze, in quell’universo ove tutto cambia tranne la sostanza, risultano invariabilmente brutte e grigie da entrambe le parti.”