L’articolo di Michela Faccioli, della presidenza nazionale Arci, pubblicato su Arcireport.
Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa Mirabal: donne, sorelle, compagne di lotta contro la dittatura del domenicano Trujillo e l’una accanto all’altra nel giorno della brutale morte, il 25 novembre 1960. A loro è dedicata la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, voluta dall’ONU nel 1999, che nel proclamarla con la risoluzione 54/134, ha ricordato che l’espressione «violenza contro le donne» designa ogni atto di violenza rivolto contro il sesso femminile che arrechi o sia suscettibile di arrecare pregiudizio o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, nonché la minaccia di eseguire tali atti, la costrizione o la privazione arbitraria di libertà, tanto nella vita pubblica quanto nella vita privata. Un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità riporta che il 35 % delle donne nel mondo ha vissuta un’esperienza traumatica di violenza e che la forma più comune di abuso che colpisce il 30%, viene inflitta da un partner intimo.
Cambiano i protagonisti, le situazioni e i luoghi, ma assistiamo ad una intollerabile e quotidiana recidiva. Forse è per questa ragione che quest’anno un gruppo di donne italiane ha deciso di commemorare il 25 novembre in modo più militante, proclamando uno sciopero generale delle donne «che blocchi questo maledetto paese», si legge nell’appello, (…) «senza il rispetto per la nostra autodeterminazione e il nostro corpo non c’è società che tenga. Perché la rabbia e il dolore, lo sconforto e l’indignazione, la denuncia e la consapevolezza, hanno bisogno di un gesto forte». Non si può approfondire esclusivamente il fenomeno del femminicidio, ma più opportunamente va indagato quel degrado che pervadendo ampi settori della società, porta ragazzine appena entrate nell’adolescenza a prostituirsi, e Walter Siti, vincitore del Premio Strega 2013 con Resistere non serve a niente, ad interrogarsi se di fronte alla rivendicazione «il corpo è mio e io sono libera di farne quello che voglio», ci può essere libertà in un rapporto che recita schiavitù.
Come è stata ed è trattata la donna nel nostro Paese? Nel dopoguerra, nonostante le dichiarazioni di alcune testi intervenute nei tribunali per denunciare le violenze e gli abusi sessuali, in molti procedimenti il capo d’imputazione di «sevizie particolarmente efferate» non fu neppure considerato, e parimenti la pensione di guerra fu spesso concessa per aver contratto qualche forma di malattia venerea e non per lo stupro: la sola violenza infatti, anche se accertata, non bastava se la donna, o la bambina, non era stata contagiata. Molti anni più tardi, la legge sulla procreazione assistita si è rivelata, come sostiene Stefano Rodotà, uno strumento «per riportare sotto controllo la libertà femminile e il potere di procreare, per tornare così a considerare il corpo della donna come luogo pubblico su cui legiferare, sul quale esercitare di nuovo un forte potere di disciplinamento». Qualche settimana fa, l’approvazione delle disposizioni sul femminicidio è stata sottoposta a comportamenti ricattatori e infine racchiusa in un decreto omnibus, un pastone che contemplava una eterogeneità di norme, dalla sicurezza dei cantieri per il Tav al destino delle province.
In tale contesto, giornate celebrative e nuove leggi non basteranno certamente a cambiare la realtà, se accanto all’educazione sessuale non si organizzeranno percorsi di educazione sentimentale, che consentano di ragionare sull’emotività, sui sentimenti e sull’affettività, nonché di fornire alle nuove generazioni gli strumenti necessari per gestire i conflitti e i possibili fallimenti. Probabilmente Antonio Gramsci di questi strumenti, forse inconsapevolmente, era provvisto se nella veste di marito, prima che in quella di intellettuale e di politico, così si rivolgeva alla propria compagna, Julka Schucht: «… quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature umane. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario? Ho pensato molto a tutto ciò e ci ho ripensato in questi giorni, perché ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l’amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido. Ti voglio tanto bene, Julca, che non m’accorgo di farti male, qualche volta, perché io stesso sono insensibile».