Quegli sportelli sul territorio che aiutano a contrastare la discriminazione intersezionale

Da Genova a Trento i presidi sui territori stanno iniziando a lavorare per il riconoscimento delle discriminazioni secondo una prospettiva nuova. Ma lo scoglio è il riconoscimento giuridico. Difficile anche l’affermazione nel lavoro sociale

ROMA – La prima volta che Amal (nome di fantasia) ha chiesto aiuto è stato per una firma mancante sul passaporto dei figli. Si era allontanata da casa dopo l’ennesima lite in cui, come sempre, non erano mancate le botte. Ma la sua fuga da un marito violento era ostacolata da una firma sui documenti. Come tante donne straniere sapeva bene che anche il suo permesso di soggiorno, e quindi la sua possibilità di restare in Italia, era legata a doppio filo a quella relazione violenta. Cosa fare, dunque? Dichiarando la sua posizione alle autorità rischiava di essere allontanata dai bambini? Disperata, Amal aveva seguito il consiglio di un’amica: rivolgersi a uno sportello che aiuta le donne in difficoltà. E così, imboccato uno dei carruggi di Genova, si decise ad andare. “Quando è arrivata da noi ci ha spiegato il problema con i documenti, non aveva ancora un provvedimento del giudice che certificasse la violenza del marito e così non riusciva a sbloccare la situazione – spiega Serena Ospazi, coordinatrice degli sportelli di cittadinanza di Arci solidarietà Genova -. La abbiamo aiutata inizialmente per l’accesso alla burocrazia, da sola in questura aveva avuto diverse difficoltà, così ci siamo occupati della mediazione. Dal problema iniziale sui documenti sono poi emerse una serie di problematiche che riguardano diversi aspetti della vita quotidiana. Da ultimo l’accesso al lavoro: Amal è musulmana e porta il velo. Ci ha raccontato di aver sostenuto colloqui col titolare di un negozio che le ha detto di non poter stare in pubblico così. O toglieva l’hijab o niente. E ovviamente ha dovuto rinunciare”.

Discriminazioni multiple, spesso intrecciate tra loro, ma difficili da denunciare o anche solo da riconoscere. Secondo i dati delle associazioni che lavorano sulla tutela dei diritti quello di Amal non è un caso isolato: a essere coinvolte sono spesso donne straniere, ma anche persone con disabilità, appartenenti alla comunità lgbtq o chiunque si trovi in situazione di fragilità sociale. E sono proprio i presidi sul territorio a fare luce sulle storie di ordinaria discriminazione. “La nostra esperienza è nata dagli sportelli antidiscriminazione razziale – spiega ancora Ospazi -. Su Genova e in altre città della Liguria siamo conosciuti da tempo nella comunità dei migranti e questo rapporto di fiducia rende più semplice rivolgersi a noi che ad altri. Frequentemente ci troviamo a intervenire sulla discriminazione amministrativa e sul mancato accesso ai servizi. Il lavoro che facciamo non è solo di accompagnamento per la risoluzione dei problemi, ma anche di ascolto e prevenzione. Abbiamo seguito per esempio diversi casi di richiedenti asilo omosessuali, discriminati fin dal paese di origine e che una volta in Italia non vengono creduti dalla Commissione che deve decidere sulla loro richiesta di protezione. Questo crea una serie di difficoltà di vita anche nelle comunità in cui sono accolti. Spesso hanno paura persino di raccontare la loro storia”. In rete coi servizi antiviolenza, negli ultimi anni gli sportelli antidiscriminazione razziale hanno iniziato a lavorare per far emergere una riflessione su tutte queste discriminazione guardando all’ intersezionalità: l’approccio che considera la molteplicità degli aspetti che compongono un’identità e i modi in cui questi si intrecciano creando particolari situazioni di svantaggio o di privilegio in un determinato contesto sociale. Così sui territori le associazioni hanno iniziato a scambiare pratiche e modalità di intervento.

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