Da Arcireport n. 16, un articolo di Michele Aini, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università Roma 3.
La guerra in Libia ha fatto la prima vittima italiana: la nostra vecchia Carta. L’articolo 11 è quanto mai eloquente: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Quel verbo non fu scelto a caso. All’Assemblea costituente qualcuno avrebbe voluto scrivere «condanna» la guerra, qualcun altro «rinuncia». No, dissero i più: perché la condanna esprime una valenza etica piuttosto che giuridica, e perché si può rinunciare all’esercizio di un diritto, ma non esiste il diritto d’aggredire il prossimo. C’è solo il diritto di resistere alle aggressioni altrui, e infatti i commentari della Costituzione sono univoci: l’unica guerra ammessa è quella difensiva, quando il nemico ti entra in casa. E allora come la mettiamo se l’esercito italiano preme il grilletto oltre confine? Dagli anni ’80 in poi l’ha fatto in mezzo mondo: il Libano, la Somalia, l’Iraq, la Bosnia, il Kosovo, l’Afghanistan, ora la Libia. E in tutti questi casi è stata ingaggiata una disputa sulla parola, anziché sulla cosa. Non guerra, bensì intervento umanitario. Non offesa alla libertà degli altri popoli, bensì soccorso armato per la loro libertà. Non avventura militare, bensì presidio dei diritti umani, strumento di pace e di giustizia. Rispolverando in ultimo il motto di Aristotele: «Facciamo la guerra per poter vivere in pace». Ma al contempo incorrendo in almeno quattro paradossi. Primo: i diritti umani, come dice per l’appunto la parola, spettano all’intera umanità. Ma l’umanità ha mai spedito truppe per difenderli in Cecenia o in Tibet? No, perché russi e cinesi hanno l’atomica. E dunque in nome della realpolitik ne neghiamo il valore universale, trasformando i diritti in privilegi. Secondo: se invece fosse possibile imporli con le armi senza alcuna eccezione, il mondo diventerebbe un’enorme polveriera. Sicché celebreremmo i funerali del primo diritto umano, quello alla sopravvivenza della specie. Terzo: in Libia non marcia un esercito invasore, come in Polonia nel ’39. C’è una sollevazione popolare, e ogni popolo deve trovare in sé medesimo le energie per rovesciare i propri dittatori, altrimenti resterà comunque servo, colono del suo liberatore. Quarto: ma l’articolo 11 – si osserva – consente limitazioni di sovranità per edificare un ordinamento che assicuri la pace. Curiosa questa torsione interpretativa che piega l’articolo 11 contro se stesso, sostituendo al ripudio della guerra l’apoteosi della guerra giusta, quella dichiarata dall’Onu e poi liberamente interpretata da ogni Stato. Sennonché il pensiero giuridico moderno – da Kelsen in poi – si è sbarazzato dell’idea di guerra giusta, anche perché ogni guerra è giusta per chi la proclama. E ha benedetto la guerra legittima, ossia ancorata a vincoli sostanziali e a procedure formali. Nella Costituzione italiana l’organo legittimato a esprimere questa suprema decisione è il Parlamento, che tuttavia si è scomodato il 24 marzo, quando gli aerei erano già decollati.