In occasione della giornata mondiale del rifugiato pubblichiamo l’articolo di Antonio Guterres, segretario generale dell’Agenzia per i rifugiati delle nazioni unite, pubblicato sull’edizione di Le Monde Diplomatique di giugno. – “Vivere l’esperienza di essere sradicati e costretti all’esilio, come risultato della repressione, della guerra o di disastri naturali, costituisce una caratteristica propria della storia dell’umanità. La migrazione forzata ha influenzato lo sviluppo delle principali religioni ed è parte integrante del nostro comune patrimonio.
Questo fenomeno costituisce una delle più visibili e profonde conseguenze dei conflitti e delle persecuzioni. La portata di tali spostamenti forzati è enorme e non mostra alcun segno di riduzione. Conflitti armati e violazioni dei diritti umani hanno costretto circa 800mila persone a chiedere asilo nel 2011. Quest’anno solo i combattimenti nel Nord del Mali hanno provocato l’esodo di oltre 200mila persone mentre la crisi in Siria ha costretto piu’ di 65mila persone a cercare rifugio in altre aree della regione.
Se da un lato emergono nuovi conflitti, dall’altro le vecchie guerre continuano, spesso evolvendosi in situazioni sempre più complesse. L’Afghanistan, la Somalia, la Repubblica democratica del Congo orientale costituiscono solo alcuni esempi. Milioni di persone sono intrappolate in spirali di violenza, privazioni e sfollamento all’interno dei loro paesi; mentre coloro che riescono a fuggire fuori per chiedere asilo si ritrovano spesso in esilio per lunghi periodi.
In Pakistan, Kenya e nel Sudan Orientale, per esempio, ci sono centinaia di migliaia di bambini rifugiati di origine afghana, somala ed eritrea, i cui nonni furono gli ultimi membri della loro famiglia a vedere la loro terra natìa. Appena dieci anni fa in media un milione di rifugiati faceva ritorno a casa ogni anno con l’aiuto dell’Unhcr. Questo numero è sceso dell’80%, dal momento che il perdurante senso di insicurezza e la mancanza di mezzi di sostentamento scoraggiano il ritorno.
Lì dove i processi di pace hanno avuto come risultato un cambiamento positivo e hanno permesso a un vasto numero di persone di ritornare alle proprie case, dispute persistenti possono ancora innescare nuove migrazioni forzate. Questo è il caso del Sudan e il Sud Sudan. Attualmente, come conseguenza delle tensioni tra questi due stati, stiamo portando avanti nuove operazioni di emergenza nel Sud Sudan e in Etiopia.
Soluzioni alternative al rimpatrio restano ugualmente molto limitate. I paesi in via di sviluppo, che devono affrontare le proprie sfide economiche e sociali, sono riluttanti ad offrire ai rifugiati la prospettiva di ottenere diritti di residenza permanente e la possibilità di ricorstruire lì le loro vite. Nonostante cresca il numero di paesi industrializzati che accoglie i rifugiati attraverso programmi di reinsediamento organizzati, il numero dei posti messi a disposizione ogni anno riesce ad ospitare meno dell’1% di tutti i rifugiati del mondo.
Mentre le persecuzioni e i conflitti armati sono le cause centrali della migrazione forzata, altri fattori intervengono nell’alterare le dinamiche degli sfollamenti e possono influenzare profondamente il nostro modo di operare. Le minacce e gli schemi delle migrazioni forzate sono diventati complessi e accade anche che eventi interni a uno Stato causino instabilità ben al di là dai suoi confini. Durante la «primavera araba» un atto individuale di resistenza ha innescato un fenomeno di portata regionale, di sfida nei confronti delle istuituzioni governative. I migranti in fuga dal conflitto in Libia sono tornati in Mali senza lavoro, in un’area caratterizzata da scarsità di risorse, tranne per un facile accesso alle armi. La povertà è così sfociata in guerra e instabilità politica.
Sempre più questi spostamenti sono innescati o provocati da fattori come i disastri naturali, desertificazione, aumento dellla popolazione, rapida urbanizzazione, insicurezza alimentare, scarsità d’acqua e violenza collegata alla criminalità organizzata. I cambiamenti climatici spesso aggravano queste cause. Inoltre, questo fenomeno non conosce confini. Con la globalizzazione, le economie, le risorse naturali e la sicurezza sono collegate ai nostri destini come mai prima nella storia. Sfide sempre più grandi per l’accesso alle risorse fondamentali possono trasformarsi in lotta politica e conflitto. È nel nostro interesse collettivo affrontare queste sfide attraverso strategie volte a prevenirle e ridurle e attraverso meccanismi di risoluzione dei conflitti, che devono includere anche le comunità sulle quali gravano questi spostamenti.
La maggior parte delle persone sfollate resta all’interno dei propri confini nazionali, dove però la risposta dei governi può essere limitata. Anche quando attraversano i confini potrebbero non riuscire a beneficiare con certezza della protezione e dell’assistenza garantita ai rifugiati a causa di lacune legislative. Sono necessari più sforzi per sostenere gli Stati a prevenire il fenomeno delle migrazioni forzate, così come nel fornire protezione e soluzioni appropriate alle popolazioni interessate.
Ciò nonostante, sono rincuorato dal fatto che molti Stati, specialmente quelli nel mondo in via di sviluppo, continuano a mantenere i loro confini aperti ai rifugiati. Più dell’80 per cento di questi è ospitato all’interno della propria regione, spesso in paesi che lottano per soddisfare i bisogni dei propri cittadini. Dobbiano fornire a questi Stati i mezzi per sostenere queste responsabilità, anche attraverso la ricerca collettiva di soluzioni, tra le quali un aspetto chiave dovrebbe essere investire nello sviluppo sostenibile delle aree colpite.
Mi sento incoraggiato dal fatto che continuiamo ad essere testimoni di azioni di straordinaria generosità da parte delle popolazioni ospitanti che sono direttamente interessate dall’arrivo di rifugiati. Le case, il cibo, la terra, i servizi sanitari e scolastici vengono condivisi. Ho personalmente assistito alla distribuzione condivisa dei semi di riso destinati al futuro raccolto tra la popolazione locale liberiana a Nimba County e i rifugiati della Costa d’Avorio. Sebbene importanti, tali sacrifici dovrebbero essere resi non necessari attraverso pronto e mirato sostengo nei confronti delle comunità ospitanti.
Le soluzioni per i rifugiati sono collegate alla valutazione delle cause sottostanti i conflitti. Quando la sicurezza è ripristinata e i rifugiati fanno ritorno, l’accesso ai beni fondamentali, ai servizi e agli strumenti legali è essenziale. A tale proposito, la cooperazione allo sviluppo, sia essa di tipo tecnico o finanziario, ha un ruolo fondamentale, sebbene continui a restare largamente inutilizzata. Per esempio, l’Unhcr sta lavorando con i partner per lo sviluppo nelle comunità ospitanti del Sudan orientale e del Nepal, col fine di rafforzare le opportunità di sostentamento e risanare le aree degradate da un punto di vista ambientale. Espressione tangibile di solidarietà internazionale, tali programmi aumentano la coesione sociale.
Con il difficile scenario economico globale, è facile preoccuparsi degli interessi immediati e perdere di vista quei valori che tutti noi condividiamo. È pertanto essenziale che le perdite e le sofferenze, così come l’incredibile determinazione dei rifugiati continuino ad attrarre l’immaginario collettivo e a generare un senso di responsabilità.
Dobbiamo ricercare strumenti innovativi e sostenibili per fornire il nostro sostegno alle persone sradicate e a chi le riceve. Non si tratta semplicemente di una questione di buon senso, ma una manifestazione della nostra comune umanità.”
Se da un lato emergono nuovi conflitti, dall’altro le vecchie guerre continuano, spesso evolvendosi in situazioni sempre più complesse. L’Afghanistan, la Somalia, la Repubblica democratica del Congo orientale costituiscono solo alcuni esempi. Milioni di persone sono intrappolate in spirali di violenza, privazioni e sfollamento all’interno dei loro paesi; mentre coloro che riescono a fuggire fuori per chiedere asilo si ritrovano spesso in esilio per lunghi periodi.
In Pakistan, Kenya e nel Sudan Orientale, per esempio, ci sono centinaia di migliaia di bambini rifugiati di origine afghana, somala ed eritrea, i cui nonni furono gli ultimi membri della loro famiglia a vedere la loro terra natìa. Appena dieci anni fa in media un milione di rifugiati faceva ritorno a casa ogni anno con l’aiuto dell’Unhcr. Questo numero è sceso dell’80%, dal momento che il perdurante senso di insicurezza e la mancanza di mezzi di sostentamento scoraggiano il ritorno.
Lì dove i processi di pace hanno avuto come risultato un cambiamento positivo e hanno permesso a un vasto numero di persone di ritornare alle proprie case, dispute persistenti possono ancora innescare nuove migrazioni forzate. Questo è il caso del Sudan e il Sud Sudan. Attualmente, come conseguenza delle tensioni tra questi due stati, stiamo portando avanti nuove operazioni di emergenza nel Sud Sudan e in Etiopia.
Soluzioni alternative al rimpatrio restano ugualmente molto limitate. I paesi in via di sviluppo, che devono affrontare le proprie sfide economiche e sociali, sono riluttanti ad offrire ai rifugiati la prospettiva di ottenere diritti di residenza permanente e la possibilità di ricorstruire lì le loro vite. Nonostante cresca il numero di paesi industrializzati che accoglie i rifugiati attraverso programmi di reinsediamento organizzati, il numero dei posti messi a disposizione ogni anno riesce ad ospitare meno dell’1% di tutti i rifugiati del mondo.
Mentre le persecuzioni e i conflitti armati sono le cause centrali della migrazione forzata, altri fattori intervengono nell’alterare le dinamiche degli sfollamenti e possono influenzare profondamente il nostro modo di operare. Le minacce e gli schemi delle migrazioni forzate sono diventati complessi e accade anche che eventi interni a uno Stato causino instabilità ben al di là dai suoi confini. Durante la «primavera araba» un atto individuale di resistenza ha innescato un fenomeno di portata regionale, di sfida nei confronti delle istuituzioni governative. I migranti in fuga dal conflitto in Libia sono tornati in Mali senza lavoro, in un’area caratterizzata da scarsità di risorse, tranne per un facile accesso alle armi. La povertà è così sfociata in guerra e instabilità politica.
Sempre più questi spostamenti sono innescati o provocati da fattori come i disastri naturali, desertificazione, aumento dellla popolazione, rapida urbanizzazione, insicurezza alimentare, scarsità d’acqua e violenza collegata alla criminalità organizzata. I cambiamenti climatici spesso aggravano queste cause. Inoltre, questo fenomeno non conosce confini. Con la globalizzazione, le economie, le risorse naturali e la sicurezza sono collegate ai nostri destini come mai prima nella storia. Sfide sempre più grandi per l’accesso alle risorse fondamentali possono trasformarsi in lotta politica e conflitto. È nel nostro interesse collettivo affrontare queste sfide attraverso strategie volte a prevenirle e ridurle e attraverso meccanismi di risoluzione dei conflitti, che devono includere anche le comunità sulle quali gravano questi spostamenti.
La maggior parte delle persone sfollate resta all’interno dei propri confini nazionali, dove però la risposta dei governi può essere limitata. Anche quando attraversano i confini potrebbero non riuscire a beneficiare con certezza della protezione e dell’assistenza garantita ai rifugiati a causa di lacune legislative. Sono necessari più sforzi per sostenere gli Stati a prevenire il fenomeno delle migrazioni forzate, così come nel fornire protezione e soluzioni appropriate alle popolazioni interessate.
Ciò nonostante, sono rincuorato dal fatto che molti Stati, specialmente quelli nel mondo in via di sviluppo, continuano a mantenere i loro confini aperti ai rifugiati. Più dell’80 per cento di questi è ospitato all’interno della propria regione, spesso in paesi che lottano per soddisfare i bisogni dei propri cittadini. Dobbiano fornire a questi Stati i mezzi per sostenere queste responsabilità, anche attraverso la ricerca collettiva di soluzioni, tra le quali un aspetto chiave dovrebbe essere investire nello sviluppo sostenibile delle aree colpite.
Mi sento incoraggiato dal fatto che continuiamo ad essere testimoni di azioni di straordinaria generosità da parte delle popolazioni ospitanti che sono direttamente interessate dall’arrivo di rifugiati. Le case, il cibo, la terra, i servizi sanitari e scolastici vengono condivisi. Ho personalmente assistito alla distribuzione condivisa dei semi di riso destinati al futuro raccolto tra la popolazione locale liberiana a Nimba County e i rifugiati della Costa d’Avorio. Sebbene importanti, tali sacrifici dovrebbero essere resi non necessari attraverso pronto e mirato sostengo nei confronti delle comunità ospitanti.
Le soluzioni per i rifugiati sono collegate alla valutazione delle cause sottostanti i conflitti. Quando la sicurezza è ripristinata e i rifugiati fanno ritorno, l’accesso ai beni fondamentali, ai servizi e agli strumenti legali è essenziale. A tale proposito, la cooperazione allo sviluppo, sia essa di tipo tecnico o finanziario, ha un ruolo fondamentale, sebbene continui a restare largamente inutilizzata. Per esempio, l’Unhcr sta lavorando con i partner per lo sviluppo nelle comunità ospitanti del Sudan orientale e del Nepal, col fine di rafforzare le opportunità di sostentamento e risanare le aree degradate da un punto di vista ambientale. Espressione tangibile di solidarietà internazionale, tali programmi aumentano la coesione sociale.
Con il difficile scenario economico globale, è facile preoccuparsi degli interessi immediati e perdere di vista quei valori che tutti noi condividiamo. È pertanto essenziale che le perdite e le sofferenze, così come l’incredibile determinazione dei rifugiati continuino ad attrarre l’immaginario collettivo e a generare un senso di responsabilità.
Dobbiamo ricercare strumenti innovativi e sostenibili per fornire il nostro sostegno alle persone sradicate e a chi le riceve. Non si tratta semplicemente di una questione di buon senso, ma una manifestazione della nostra comune umanità.”