A chi, come me, ha una modesta capacità di analisi occorre a volte qualche ora in più per formulare un commento adeguato . Certo, le emozioni sono la cosa più importante che distingue l’essere umano dalla macchina, ma la riflessione aiuta a capire.

La vicenda dello sgombero del LSOA (Laboratorio Sociale Occipato Autogestito) Buridda ha indubbiamente toccato e ridato voce (e forse riacceso) una città silente di fronte alle tante difficoltà da affrontare. Purtroppo ha anche risvegliato chi non vede l’ora di usare qualunque pretesto per devastare una sede di partito. Sarà, ma a me questa idea che la “scienza metrica” (ossia la sola capacità di misurarselo) debba essere applicata alla politica non mi garba. Ho potuto addirittura leggere commenti e post indignati per lo sgombero anche da parte di chi, quasi sicuramente, al Buridda non ha mai messo piede. O, peggio ancora, da parte di chi, senza mai dirlo esplicitamente, ha considerato quel posto un covo di “comunisti”, sbandati e drogati. Già perché le “lacrime di coccodrillo” a Genova vanno per la maggiore, soprattutto abbinate ai due sport più diffusi: il mugugno e il tiro a segno.

Io invece parto da una premessa: non credo nei santuari laici e non li lodo neppure a posteriori. Il Buridda non lo era, così come non lo sono alcuni altri posti (pochi per la verità) che molto più modestamente permettono di sentirsi a casa propria in una città che offre ben poco. Parlo di città non riferendomi solo alla mia, anche perché nei giorni precedenti lo sgombero del Buridda, altri due centri sociali a Roma e Torino hanno subito la stessa sorte.

Luoghi sempre più autoreferenziali? Forse è vero, anche perché sostanzialmente sono diventati “tane” che servono per difendersi da città che sono sempre meno a misura d’uomo. Spazi che permettono d’incontrare altri “umani” senza necessariamente avere un carrello della spesa tra le mani o senza doverlo fare per forza, come al lavoro. Luoghi quindi che assumono un ruolo ben più significativo del semplice ritrovo.

Posti di cui ci accorgiamo, però, sempre troppo tardi. Noi, “gli altri”, tutti, nessuno escluso. Nemmeno la maggioranza di quelli che oggi sbraitano, urlano o si sfogano sui social network dopo lo sgombero del Buridda.

Diciamolo senza il “bon ton” che tanto piace ai salotti televisivi: la nostra Genova non è una città per giovani. Tanto meno per quelli che hanno scelto di costruirsi una tana per difendersi. Quelli, addirittura, sono tra i più pericolosi perché, anche se solo in parte, hanno capito che così non funziona. Ma del resto, qualcuno dirà, “non votano e sono una netta minoranza e quindi è bene che si mettano l’anima in pace e prendano ciò che passa il convento”.

Questa del resto è la regione dell’invecchiamento attivo, delle feste delle età libere e di quegli stessi circoli (anche Arci) che vorrebbero avere più giovani “ma che però devono fare quello che diciamo noi”. Nella migliore delle ipotesi “delle specie protette”. Così, giusto per mostrarle un po’ quando serve…

L’accusa principale che mi è stata rivolta quando ho provato a fare questi ragionamenti è stata quella di voler innescare una guerra generazionale. Strano, ho risposto io, questa ridicola accusa vale solo quando il soggetto principale sono i più giovani.

In ogni caso, a me pare un po’ questa la realtà che ruota attorno alla vicenda del Buridda. Quella stessa realtà fatta di scelte che hanno tagliato fuori dalle politiche pubbliche più d’una generazione, salvo poi lamentarsi per la fuga di cervelli. Quella società del “politicamente corretto” che si dispera per la disoccupazione giovanile che è tornata ad essere una piaga sociale ma che pensa, però, che la creatività giovanile debba essere gestita dai servizi sociali: chi meglio infatti di loro può saper gestire quegli “sfigati”? Tutte queste cose le vedo meglio ora che non sono più giovane.

“Che cosa gli facciamo fare?” è una delle frasi più ricorrenti di chi ci interpella “perché voi il rapporto con i giovani lo avete”, quasi fossimo dei maghi…

Colpevoli di questa situazione? Uno, nessuno e centomila. Solo una certezza, per noi che pure non amiamo usare il nome di Don Andrea Gallo per ogni cosa. Oggi, di fronte a queste situazioni, manca una figura capace di stare nel mezzo di quel conflitto. Manca il Don e, purtroppo, non ci sarà più e sarà bene trovare un altro modo per risolvere seriamente i problemi.

Infine a proposito della rabbia. Pensiamoci un momento, con un po’ di onestà intellettuale: ma, è poi così difficile capire perché sono incazzati ‘sti ragazzi? E’ davvero così incredibile la rabbia di chi si sente espropriato della propria tana, costruita faticosamente dove prima non c’era nulla?

Provate voi ad entrare nella tana di un lupo che si sente braccato. Provate voi a farlo uscire con gentilezza, magari suggerendogli che così è la vita e la legge è legge. E poi che la legge e’ uguale per tutti. Ecco, poi, raccontatemi come reagisce il lupo.